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La mia New York

Tu non sei una città, sei un’entità, un organismo in perpetuo movimento, un cuore che batte a un ritmo caotico e inarrestabile, come se ogni tuo angolo lottasse per esistere e affermarsi, per non essere dimenticato. Camminare per le tue strade significa abbandonarsi a un flusso che non si può controllare, come una corrente di energia inarrestabile che ti prende e ti trascina via.

C’è qualcosa di magnetico in te, qualcosa di inspiegabile, una presenza quasi sovrannaturale che si manifesta nell’odore acre del caffè che si mescola al vapore dei tombini, nell’eco dei clacson che si rincorrono come una lingua sconosciuta, nel profumo delle castagne arrostite che aleggia in Central Park mentre il gelo del mattino si aggrappa alla pelle. Sei come una sinfonia di suoni dissonanti che, contro ogni logica, diventano musica.

E poi c’è il tuo volto frammentato, le tue mille identità che convivono come pezzi di un puzzle che non si ricompone mai del tutto: Little Italy che si stringe sempre più; Chinatown che si espande; il Village, che conserva ancora l’eco di un’epoca bohémienne. E poi Harlem, che si riscrive ogni giorno, mentre il Lower East Side si tinge di odori e accenti che si sovrappongono e si confondono, un crocevia che non conosce tregua.

Attraversarti è un’esperienza quasi spirituale: il ponte di Brooklyn al tramonto, le luci della città che si accendono come stelle artificiali; Times Square alle quattro del mattino, un vuoto surreale, come se persino tu, la città che non dorme mai, stessi trattenendo il respiro. Ma non ti concedi mai del tutto. Sei un enigma, un miraggio che si intravede ma non si afferra mai completamente.

Eppure, in mezzo a tutto questo, mi hai insegnato qualcosa di essenziale: che il caos non è il contrario dell’ordine, ma la sua forma più pura. Mi hai messo alla prova, con i tuoi 42 chilometri della maratona, con ogni passo che attraversa le tue vene, mi hai mostrato che i limiti sono solo illusioni, che l’unico modo per trovarti è perdersi in te.

Ma sei anche spietata, crudele a volte. I tuoi contrasti sono taglienti: penthouses da cinquanta milioni di dollari si ergono sopra i senzatetto che cercano rifugio nelle tue ombre; giardini pensili e silenzi che convivono a pochi metri dal fragore della metropolitana. Sei una città che ferisce, ma non si scusa mai per il dolore che infligge.

E forse è proprio questo che ti rende indimenticabile. Non sei perfetta, non sei semplice, non sei prevedibile. Sei un’entità viva, con le tue cicatrici e le tue contraddizioni, una mappa di solitudini intrecciate che, in qualche modo, formano una collettività.

Ogni volta che ti lascio, sento il peso di un’assenza. Ma so che tornerò. Perché con te non è mai un addio. Sei rinascita continua, sei promessa, sei casa.

E così resto, sospeso tra l’amore e l’inquietudine, sapendo che sei l’unica che può darmi tutto, senza mai darmi abbastanza.